Il tuo carrello è attualmente vuoto!
Published by
on
Ogni giorno in Africa non importa che tu sia leone o gazzella, l’importante è che compri dei nuovi vestiti… non era così?
La moda veloce, o fast fashion1, permea la società contemporanea e la vita di tutti noi, come un accessorio, un dettaglio sfoggiato da molti e nascosto da pochi. Le alternative esistono, ne sentiamo parlare spesso ma altrettanto spesso ci convincono poco, per i loro costi superiori o per la poca varietà nell’offerta ben più limitata rispetto a quella offerta dai colossi della moda veloce che tutti conosciamo.
Veloce perché la vediamo da lontano, come un miraggio, un modello da imitare, ma che non fa in tempo ad avvicinarsi che già la sua immagine risulta sbiadita e in lontananza, confondendosi con quella di
un’altra moda, altrettanto veloce, che proveremo ad afferrare per rallentarla, rimanendo ancora solo con un mucchio di polvere in mano. Ma come è nata, questa moda veloce? La risposta vi sorprenderà!
Non crederete davvero che la fast fashion sia nata nell’Ottocento, vero? Ecco, nenche io lo pensavo, ma in realtà alcuni dei meccanismi produttivi e psicologici che hanno portato alla larga diffusione di questa hanno origine proprio in quel periodo. Fino ad allora, era comune far affidamento sull’allevamento di pecore per avere accesso alla lana da cui ricavare il filato necessario per produrre vestiti.
Fu solo con la Rivoluzione Industriale che il ciclo produttivo riuscì ad accelerare. Nel 1846 fu brevettata la prima macchina da cucito, che contribuì ad accelerare la produzione, al contempo facendo diminuire i prezzi. Il grosso della produzione però, derivava dallo sfruttamento dei lavoratori ed era destinato alla classe intermedia, visto che la classe nobiliare acquistava da botteghe private, mentre quella più povera produceva in casa i propri capi. E se già iniziate a intravedere alcune somiglianze con ciò che accade oggi, non sbagliate: lavoratori sottopagati per una produzione rapida e di larga scala, dedicata alla maggior parte della popolazione. “Historia magistra vitae”, si dice, no?
A inizio Novecento, la maggior parte della produzione rimaneva casalinga. Con la Seconda Guerra Mondiale, iniziò invece ad aumentare la produzione in serie, standardizzata, sia per necessità (carenza di tessuti) che per praticità (la produzione industriale era concentrata su altri settori rispetto a quello tessile). D’altra parte, la classe media divenne sempre più abituata a questo tipo di produzione, rimanendoci affezionata anche una volta terminato il conflitto mondiale. Contemporaneamente, iniziarono a emergere problematiche come incidenti in luoghi di lavoro poco sicuri, come gli incendi che nel 1911 distrussero un’industria tessile a New York, causando la morte di 146 dipendenti. Sfortunatamente,
anche questo tipo di eventi non ci risulta nuovo, visti vari frequenti fatti di cronaca come l’incendio che, nel 2012, uccise 117 persone nel crollo del Rana Plaza, un’industria tessile in Bangladesh.
Fu però durante la seconda metà del Novecento che l’industria tessile iniziò a diventare veloce, come la conosciamo oggi, e il cambiamento partì dai giovani. L’interesse verso le mode del momento iniziò a prevalere sulle abitudini più antiche all’acquisto sartoriale. La domanda sempre più crescente di capi fu affiancata dall’esigenza che questi avessero prezzi accessibili, portando alla fondazione dei brand che oggi conosciamo: H&M (1947), Primark (1969), Zara (1975), Forever 21 (1984) & Co. Quando Zara approdò a New York, il New York Times utilizzò il termine “fast fashion” in riferimento alla rapidità dei processi produttivi (passavano solamente 15 giorni perché un capo appena ideato venisse esposto). Il processo di democratizzazione della moda è figlio della globalizzazione, con la comunicazione resa anch’essa semplice e agile indipendentemente dalla propria condizione sociale.
La situazione attuale non è promettente. Molti brand di fast fashion utilizzano il tema della sostenibilità solo come maschera verde per una struttura produttiva altamente inquinante, altri (forse, volendo
essere positivi e fiduciosi) provano a portare avanti alcune iniziative con la migliore volontà di effettuare, a ritmi diversi, una transizione il quanto più completa verso la sostenibilità, per quanto possibile per un’industria che deve produrre valore o, in questo caso, vestiti. “Chi va piano, va sano e va lontano“, dice il detto, forse poco noto o forse ignorato oggi. Rallentare, però, non significa retrocedere o impedire il progresso, ma anzi cercare di promuoverlo tramite iniziative inclusive, etiche, rispettose sia del pianeta, abituato a cambiamenti lenti, che di noi, suoi ospiti, desiderosi di viverne invece di sempre più rapidi. Non è un elogio alla decrescita in quanto tale, quanto più di una rivalutazione delle nostre priorità e abitudini. Perché il cambiamento, come ci insegna la storia, avviene a partire da un cambio delle abitudini delle masse, che però sono nient’altro che insiemi di individui. E perché cambi la massa, forse, dovremmo iniziare a farlo noi.
E voi, cosa pensate del processo che ha portato alle abitudini di molti, oggi, nei confronti della moda veloce? Senza voler puntare il dito verso altri, noi stessi siamo necessariamente figli di questa mentalità. Cosa potremmo quindi fare per cambiarla?
Puntando ora le dita, noi di Drip stiamo provando ad apportare un cambiamento, speriamo positivo. Oltre a informare e informarci, sapevi che vogliamo raccogliere i punti di riciclo disponibili su una mappa? Seguici per non perderti le ultime novità sulle nostre iniziative e articoli.
A presto,
Teo 🙂
Approfondimenti
[1] https://www.ilpost.it/2016/06/09/fast-fashion/
[2] https://fashionista.com/2016/06/what-is-fast-fashion
[3] Breward, Christopher. Oxford History of Art: Fashion. Oxford: Oxford University Press, 2003
[4] “Erling Persson, 85; Founded Clothing Chain.” New York Times. November 1, 2002: C13.
Lascia un commento